
Ho letto il Libro Tibetano dei Morti: ecco cosa ne penso
Leggere il Bardo Thodol, pur con tutta la preparazione spirituale che ho accumulato nell’ultimo anno, è stato molto intenso, a tratti spaventoso, turbante, perfino inquietante. Ma, soprattutto e innanzitutto, formativo.
Lo possiamo considerare un libro sacro nel senso che è un testo religioso che ci conduce al sacro. Per sacro intendo Dio, il Compassionevole, ma anche e soprattutto – così la intende il Libro Tibetano dei Morti – la sacralità della nostra esistenza. Un’esistenza eterna e vuota (ma per questo colma di ogni vibrazione universale), che non ha inizio, non ha fine, immutabile nella sua forma antica, primordiale, genuina. Il Thodol ci spinge a ricercarla dentro di noi, a comprenderla, a seguirne la via, gli insegnamenti. Ci porta a una comprensione più profonda della nostra anima, quindi della fiamma divina che zampilla in noi dal tempo dell’Eterno e che all’Eterno, alla fine, ci condurrà.
Qual è in primo luogo l’insegnamento di questo libro sacro? La necessità di avere coscienza della propria morte, riconoscendoci definitivamente, limpidamente, senza paura, senza timore, senza attaccamento alcuno, esseri mortali. Ci viene ripetuto in continuazione durante la lettura: quando saremo nel Bardo (quindi in quella sorta di limbo fra la morte e la successiva rinascita – o liberazione definitiva) dovremo saper annullare in noi ogni forma di attrazione o, all’opposto, repulsione per tutto ciò che a noi si manifesterà (riconoscendole soltanto come “allucinazioni” della nostra mente, risalenti a tutto ciò che abbiamo fatto, pensato, goduto e sofferto in vita). In fondo è lo stesso che nel Corano viene detto al fedele: la vita è soltanto godimento effimero, mentre il ritorno in Dio è l’unica realtà concreta, quella alla quale l’anima è istintivamente condotta se saprà riconoscersi come goccia divina e non come decadenti membra corporee. Un concetto simile è espressamente detto più volte anche nella Bhagavad Gita indiana.
Per esempio qual è l’insegnamento più importante dei Sufi (i mistici musulmani)? Che per poterlo diventare bisogna essere nel mondo, ma non del mondo. Siamo esseri viventi, ed è una fortuna bellissima, ma nonostante ciò, per dirla con Gabriele Mandel, a nulla dobbiamo essere davvero attaccati (se non a Dio, alla Realtà Ultima), e da nulla essere posseduti (e quindi di nuovo, essere tirati indietro e respinti dal ricongiungimento con Dio). Un simile concetto viene rimarcato nel Bardo Thodol: la nostra capacità di separarci dal materialismo – non solo del mondo esterno, ma anche delle nostre azioni, emozioni, stati d’animo, percezioni – ci aiuterà, o ci condannerà, a un Bardo migliore o peggiore.
E’ importante comprendere bene quanto detto finora perché ci aiuterà a responsabilizzare ogni nostro comportamento verso, e di fronte, alla morte. Dopotutto, sempre nel Corano, è detto che Dio conosce tutto, anche il più estemporaneo dei nostri vacui pensieri, in quanto, «siamo più vicini a voi della vostra stessa vena giugulare». Lo stesso concetto vale nel Libro Tibetano dei Morti: ogni nostro attimo vissuto su questa terra condizionerà non solo la nostra successiva rinascita, ma la condizione nella quale entreremo e affronteremo il limbo del Bardo. Ecco perché dobbiamo imparare fin da subito a separare ciò che il nostro corpo pensa, fa, agisce e sente, dal Vuoto colmo di Gioia che è Dio, e che, come già detto, per questo tutto può contenere (e che in altre religioni può essere espresso in modi differenti, ma con la stessa finalità).
Recentemente insisto molto nelle conversazioni che ho, nonché nel mio intimo percorso meditativo e di preghiera, sul concetto di familiarizzare con la nostra morte, senza rimandare all’infinito questo pensiero per paura. Da un certo punto di vista il Thodol ci insegna anche questo: né la paura, né l’amore, né la gioia, né la sofferenza esistono in sé. Sono soltanto rappresentazioni del nostro funzionamento mentale. Comprendere questo è uno dei punti di svolta per una vita (e una morte) migliori.
Fidatevi di una persona che ha vissuto per oltre trent’anni con il terrore fobico, e crisi di panico notturne, indotte dalla paura della morte, ma ora affrontata con serenità come conseguenza di un percorso spirituale che oserei definire estremo, intendendo dire intenso, pieno, totalizzante ogni mio attimo: meno si pensa e più si rifiuta di pensare alla morte, più questo pensiero si rafforza in noi, condizionandoci poi inevitabilmente anche nel momento effettivo della morte. Più noi pensiamo di allontanarla, più essa sghignazza sorniona vicino a noi. E’ una realtà. Pensare (ma preferisco usare il termine meditare) costantemente, giornalmente sulla morte è il modo più sano e più razionale per vivere questo pensiero con serenità e, forse, perfino con attimi di gioia.
Qual è dunque l’insegnamento principe di questo testo sacro? Sicuramente che la direzione che prende la nostra mente al momento della morte, definirà lo stato di “visioni” e turbamenti che avremo nel Bardo e, di conseguenza, nella nuova vita. E’ per questo che morire in pace con i nostri affetti, con un pensiero d’amore per Dio, senza rancore, senza preoccupazione alcuna per gli attaccamenti materiali, ci aiuterà nel passaggio. E’ un po’ lo stesso che fanno i musulmani che, sul letto di morte, puntano il dito indice verso l’alto – verso Dio – recitando per un’ultima volta la loro professione di fede La Ilaha Illa Allah – Non c’è altro Dio all’infuori di Dio. E’ un modo come un altro – dipende dalle religioni – per approcciarsi all’ormai imminente morte con una mente serena, calma e, soprattutto, devota.
Debbo inoltre dirvi che non vi consiglio di leggere il Libro Tibetano dei Morti se non avete un minimo di preparazione su ciò che è il Buddismo, su quali sono i suoi valori e insegnamenti, anche esoterici. La lettura – per quanto breve – del Thodol può spaventare, perché ci mette di fronte alla realtà che non solo nella morte non c’è una fine, ma che una volta che il corpo muore, la mente sottile incomincia a errare, in uno stato che può essere anche di confusione, timore, repulsione, in base a come avremo vissuto. Per questo non abbiate fretta di approcciarvi a uno dei principali testi sacri del canone Buddista. Tuttavia il Thodol ci insegna che la liberazione – o una nascita migliore – è possibile, ma solo come derivazione di un cambiamento interiore che deve partire da questo stesso momento.
Vi lascio con un brano che a me ha dato conforto. Ci viene detto che coloro che in vita hanno meditato seriamente sulla Grande Perfezione (possiamo interpretare ciò anche con le parole preghiera, devozione, amore per Dio), sapranno riconoscere, una volta nel Bardo, la condizione di Chiara Luce, ossia la via per una «rinascita nei piani più alti» cosicché, «nella prossima rinascita, rincontreranno questa dottrina».
In conclusione: se in questa vita abbiamo meditato, pregato, e siamo stati devoti all’Unicità dell’esistenza in cui tutto fluisce e a cui tutto ritorna, nella prossima esistenza ritroveremo nella nostra persona questa tendenza mistica, che ci potrà infine condurre, come cantava Battiato, alla «completa guarigione».
Nota dell’autore: Gabriele Mandel, che fu uno dei più importanti Sufi italiani, diceva spesso che il 40% dei mistici musulmani (quindi pur sempre una grande minoranza della totalità musulmana) crede nella reincarnazione, ossia che al fine di ritornare a Dio, dobbiamo essere completamente puri dalle scorie dell’esistenza, e da qui la ragione della reincarnazione, alla quale lo stesso Corano sembrerebbe più volte fare esplicito riferimento.
Potrebbe anche interessarti questo articolo, sul significato mistico del Paradiso secondo il Corano.
