Innanzitutto dobbiamo parlare brevemente di cosa è, o potrebbe essere, il Paradiso, inteso dall’Islam e dalle religioni monoteiste tutte. Secondo i mistici, si tratterebbe di una metafora. Ciò significa che il Paradiso non esiste? No, tutt’altro. Significherebbe invece che è qualcosa di talmente sublime, talmente superiore all’umana capacità di comprensione – quale è il Divino stesso – che soltanto attraverso un esempio metaforico possiamo avvicinarci, seppur lievemente, a una sua comprensione.
E’ il Corano stesso a parlare per noi quando, la prima volta che cita la vita dopo la morte, certo ci descrive i giardini con alberi da frutto sotto i quali scorrono ruscelli, non esitando però, immediatamente dopo, a dire che «è qualcosa di simile che sarà dato loro». Parole del Testo sacro, non mie. Proseguendo, troviamo il concetto delle «spose pure» – le Hurì, le cosiddette vergini del Paradiso. Ma è ancora Dio che parla quando poi ci dice che Esso «non esita a coniare come esempio un moscerino o poco di più ancora»; cioè che per descrivere la realtà nella quale si immergerà l’anima, soltanto la metafora può, in qualche modo, avvicinarsi.
Diceva Gabriele Mandel, il quale diffuse la conoscenza del Sufismo (il misticismo islamico) in Italia, che il Paradiso sarebbe «il ritorno in Dio», o ancor meglio nell’Oceano puro e incontaminato che è Dio. Un luogo spirituale, e non dimensionale dunque, di purezza, che né sofferenza né inquietudine possono raggiungere. Un luogo di lietezza, che lo Zoroastrismo (probabilmente la prima religione monoteista al mondo, perfino più antica dell’Induismo) ha chiamato «Dimora dei canti».
Soffermiamoci brevemente su questa espressione: la «Dimora» è ovviamente il Paradiso, mentre i «canti» sarebbero quell’elevazione spirituale prodotta dalle anime che ne fanno parte, in gioia e perfezione, verso Dio. Da questo esempio ne possiamo trarre che il Paradiso potrebbe essere un “luogo” governato da un’assoluta e impenetrabile pace (concetto espresso dal Corano stesso), nel quale l’anima che lo raggiunge vive e sperimenta quella condizione di pace e beatitudine lodando la gloria, l’immensità e – ci torneremo tra poco – la bellezza di Dio.
Questo preambolo ci è servito per introdurre il ruolo che le Hurì avrebbero in tutto ciò. Pensarle effettivamente come donne vergini come noi le intendiamo qui sulla terra, è sciocco e infantile. Soprattutto perché ogni testo sacro, e non meno il Corano, va studiato e, quindi, interpretato nella sottigliezza dei suoi molteplici messaggi.
Dobbiamo dunque considerare, da un punto di vista esoterico, due aspetti delle Hurì: la “verginità” e la bellezza che le caratterizzerebbero.
La bellezza delle Hurì, dunque, si rifarebbe alla grazia che appartiene loro nell’atto della devozione a Dio, il quale, di riflesso, infonderebbe la Sua bellezza in coloro che Lo lodano. Quindi non si tratterebbe di donne in “carne ed ossa”, quanto piuttosto di entità spirituali – belle della bellezza di Dio – che, ovviamente, non può essere carnale.
Di conseguenza coloro che, in vita, hanno pregato con devozione, abbandonandosi con amore e fiducia alla misericordia del Divino, bramando l’attesa di quello che io ho chiamato «l’infinito ritorno», ritroverebbero questa condizione sublime di grazia e gioia nelle “vergini” del Paradiso. Cioè, in parole ancor più povere: la sincera e continua contemplazione di Dio è il riflesso più genuino della bellezza che l’anima possa desiderare e, dunque, ritrovare in quel luogo. Un luogo che, ricordo ancora, è innanzitutto fatto di Spirito. Qualunque mistico – orientale od occidentale, musulmano o cristiano che sia – vi dirà lo stesso.
In tutto ciò, quindi, la verginità sta a rappresentare, metaforicamente, la purezza di queste entità celesti. Il mancare in loro qualunque forma di arroganza, o sofferenza, o buio interiore tipico dell’esistenza umana, fisica e materiale. La stessa verginità di Maria che la rendeva pura affinché potesse ricevere in sé la «Parola di Dio» (come il Corano descrive Gesù). O ancora, l’analfabetismo che viene narrato circa il Profeta Muhammad, il quale però lo rendeva puro (quindi vergine) al fine di poter ricevere in modo incontaminato la profezia finale direttamente da Dio, senza intermediario umano alcuno se non l’Arcangelo Gabriele.
Per concludere, in precedenza ho descritto Dio con il termine «bellezza». C’è un detto del Profeta Muhammad, che recita in arabo in questo modo: «Inna Allah Jameel Yuhibbu Al Jamal», ossia: «Certo, Dio è bello e ama la bellezza».
E’ necessario comprendere questo per superare la paura dell’annientamento. Dio vuole soltanto il bene, e opera attraverso il bene, e al Bene alla fine saremo ricondotti. E’ questo il motivo della Sua creazione. Ho già scritto altrove sul blog che il ritorno in Dio non è una sparizione completa di ciò che pensiamo (o che piuttosto pensiamo scioccamente di essere), ma un’apertura a qualcosa di più universale, di più cosmico e di più completo. Quella completezza che non riusciamo a sperimentare in vita a causa della nostra (errata) percezione dualista dell’esistenza.
Permettetemi di concludere questo articolo con un concetto della Kabbalah, la quale usò le parole Ain Sof Aur per descrivere ciò che non può essere descritto, cioè l’Inconoscibile che tutto governa. Queste parole significano: Luce senza fine. Si arriva addirittura ad affermare il solo Ain, cioè Senza. Che non è però da intendere come una negazione assoluta, ma una vita oltre la manifestazione illusoria della quale siamo pervasi, che se da un lato ci appare come il niente (come, appunto, il «Senza» qualcosa), in realtà comprende il Tutto.
E allora potrebbero essere questo le Hurì: la verginità dell’anima finalmente «placata e appagata», come dice il Corano, che ritorna all’universalità cosmica dello Spirito.
Le Hurì potrebbero essere la nostra più devota e più sincera lode a Dio nel momento in cui l’anima verrà finalmente liberata dal corpo, senza farvi più ritorno, «placata e appagata» nella Luce senza fine.
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