No: il Corano non parla mai di guerra santa

No: il Corano non parla mai di guerra santa

La tanto discussa parola Jihad, che in Occidente viene erroneamente tradotta con “Guerra santa”, in realtà vuol dire “sforzarsi”, “impegnarsi”. Vediamone ora di seguito un approfondimento.

C’è un famoso aneddoto che riguarda il Profeta Muhammad che ben introduce quanto vogliamo dire. Una volta tornato da una battaglia sul campo con i suoi compagni, disse che erano di ritorno dalla «Piccola Jihad»  – Jihad al Asghar -, e che andavano incontro a quella più importante: la «Grande Jihad» – Jihad al Akbar.

La Jihad minore è sì una battaglia da combattere con le armi, ma sempre e solo al fine di difendersi, mai oltre. E, come appunto detto, è la battaglia minore.

Differentemente, la grande Jihad è quella che riguarda l’essere umano nella sua interiorità. Quella più ardua da raggiungere, difficile da perseguire, e che non finisce mai, fino all’ultimo giorno della propria vita.

Questa grande Jihad è quella che si combatte – e che ogni musulmano devoto deve combattere – contro sé stesso. Contro il proprio ego e i propri impulsi passionali. Contro la violenza e le incongruenze del proprio carattere, verso un perfezionamento interiore sempre più perfetto. Ha scritto lo Sheikh Ad-Darqawi: «Non colpire né giudeo, né cristiano, né musulmano, ma colpisci il tuo nafs (il tuo ego)». Ossia: lavora su te stesso per mezzo del Jihad interiore. Soltanto così perverrai gradualmente a stati spirituali sempre più alti.

Viene spesso usato, nel misticismo islamico, l’esempio dello specchio. Noi ci specchiamo attraverso questo oggetto, ma se è sporco, pieno di polvere o di macchie, ciò che vedremo riflesso sarà sporco e torbido. Dobbiamo quindi pulirlo, lucidarlo. Questo è ciò che deve compiere l’uomo con la propria anima. Con quelli che io amo definire «i tumulti della propria mente». Soltanto in questo modo ci potrà essere una reale vicinanza tra il fedele e il proprio Dio. In questo senso la grande Jihad è ciò che serve all’uomo per prepararsi all’incontro più importante, in questa e nell’altra vita, che è quello con l’Assoluto. Ma come possiamo vivere la fede al meglio – con gioia, con serenità, con amore, con devozione, con pace e purezza – se ogni giorno combattiamo, e spesso soccombiamo, ai nostri istinti più violenti? Questa è la Jihad al akbar. Una sorta di psicologia ante-litteram.

Il Jihad – inteso dunque come sforzo interiore per migliorarsi – viene infatti citato più di una volta nel Corano. Ma mai viene usato il termine vero che in italiano si traduce con “Guerra santa”, che è Harb mukaddasah. Non una singola volta viene usato questo termine, o uno simile, nel Testo sacro islamico. Perché no: il Corano non spinge alla violenza ma, anzi, la disincentiva.

Sì: ci sono dei versetti nei quali si chiede al Profeta di combattere con le armi in pugno quei nemici che, all’epoca della rivelazione islamica, volevano a tutti gli effetti ucciderlo. Ma ci viene anche detto che Dio «non ama i prevaricatori». Per questo, se coloro che ci attaccano, che ci vogliono uccidere o farci del male, rinunciano alla spada, allora noi dobbiamo (anzi, abbiamo l’obbligo coranico) di fare altrettanto.

L’uso della violenza – se così lo vogliamo intendere – nel Corano è accettato solo ed esclusivamente a scopo difensivo. Ma la pace, il dialogo e il rispetto nella convivenza e nella diversità reciproca sono più e più volte consigliati come fine ultimo nel Testo sacro islamico. Sia che si parli effettivamente di battaglie sul campo, sia che ci si riferisca a un modo sano di relazionarsi con i genitori o con le persone a sé vicine.

Poco sopra ho infatti usato i termini «convivenza» e «diversità» reciproche. Quante volte il Corano parla di Dio che ha voluto creare più popoli, più nazioni, più carnagioni, più culture, come mezzo per dimostrare la bellezza dell’incontro con il diverso. Cito testualmente: «Abbiamo fatto di voi popoli e tribù affinché vi conosceste a vicenda» (49, 13). Come si può pensare, leggendo questo, ripetuto più e più volte nel Testo, che Dio voglia indurci alla violenza, e non alla «conoscenza» con chi è diverso da noi?

Dopotutto è il Corano stesso che parla, quando ci dice che, chiunque noi siamo – cristiani, ebrei, musulmani… – abbiamo l’obbligo di comportarci bene, rinunciando al male, perché alla fine della vita ogni anima sarà messa di fronte al proprio testo sacro – che è sempre un tentativo di spronare l’uomo al bene – e tornerà a Dio, il Quale la giudicherà secondo giustizia. Perché non è importante il mezzo – io credo in questo Testo, tu in un altro… «il fine», dice l’Islam, «è la devozione» (20, 132). E questo è valido sempre: che vi chiamiate musulmani, o che vi chiamiate cristiani. «A ogni comunità (fate attenzione al plurale) Noi abbiamo assegnato un culto da seguire» (22, 67). Poi è, certo, che l’Islam è la più onnicomprensiva fra tutte, quella che conclude e certifica la Legge divina. Quel punto – tuttavia fondamentale – che serviva per chiudere e rafforzare definitivamente il cerchio delle profezie.

«E compite lo sforzo [Jihad] per Dio con tutto lo sforzo che merita» dice il Libro sacro (22, 78). Vale a dire, di nuovo e infine, ciò che viene consigliato pressoché ovunque: impegniamoci in una preghiera e in una rammemorazione costante dell’Assoluto. Farlo, pulirà il nostro cuore dai detriti dell’ego, e chiarirà la nostra mente dalle inquietudini giornaliere. E’ una Jihad proprio per questo. Uno sforzo, un impegno. Ma sarà ciò che ci donerà le più grandi e limpide soddisfazioni.

Foto di Javad Esmaeili su Unsplash

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