Il concetto di Unità secondo l’Islam

Il concetto di Unità secondo l’Islam

Quando si usa il termine Unità, affiancato a quello di non-dualità, si tende immediatamente a pensare all’Oriente, e a mistici indiani quali Ramana Maharshi. Tuttavia anche la teologia islamica, e non meno importante la sua branca mistica, il Sufismo, hanno dato molto alla comprensione di cosa significhi e stia a rappresentare il concetto, non semplice da comprendere, nemmeno da un punto di vista prettamente concettuale, di Unità.

Innanzitutto citiamo la prima parte della Shahada – la professione di fede islamica: La Ilaha Illa Allah. Da un punto di vista squisitamente linguistico vuol dire: «Non c’è altro dio all’infuori di Allah». Vale a dire, certo, che non ci sono molteplici divinità. Che Dio è unico, eterno e assoluto. Questa la traduzione letterale. Tuttavia può anche significare e suggerire al fedele di non prendere come “divinità” nulla di questo mondo: né il denaro, né i possedimenti. Semplicemente nulla che non sia Dio. Colui che permane. Tutto il resto è destinato a finire e perire, come dice il Corano stesso.

Detto ciò, si può interpretare il concetto di Tawhid (quindi l’unità divina nell’Islam) anche in modo più ampio, sottile e, appunto, mistico.

Ha scritto ne I cento passi lo Sheikh Abd al-Qadir che lo scopo del faqir – ossia di colui che vuole fare un percorso di ascesi mistica verso il divino – è di riuscire a far emergere in sé entrambi – il molteplice e l’unità – «affinché in tutte le cose, esteriori e interiori, vi sia contemplazione dell’Amato».

Può sembrare un concetto un po’ forzato, ma l’obiettivo è riconoscere che sì, Dio è uno e unico, inviolabile e indivisibile, ma che tutto, in fondo, è emanato da Lui, e a Lui ogni cosa, inevitabilmente, ritorna. Per questo motivo è lecito affermare che nel molteplice c’è l’Uno, in quanto il molteplice non esisterebbe se non ci fosse Dio, l’Unico.

Disse lo Sheikh al-Akbar (il Maestro più grande), Ibn al-Arabi, che ogni cosa che si contempla in questo mondo è, in fondo, una contemplazione della grandezza di Dio, anche se non ce ne rendiamo conto, poiché «il nome della cosa creata funge da velo». Solo nella morte «la cortina viene rimossa» e ci renderemo conto che tutto è espressione di Dio, di quell’Unità che a Dio appartiene. Anche questo è un modo lecito di intendere l’Unicità dell’Essere.

Frithjof Schuon ha scritto similmente che lo scopo della danza dei dervisci, e di tutto il misticismo islamico, è quello di condurre l’uomo verso il divino o, per meglio dire, in un “riassorbimento” verso l’Unità divina. Dunque: «Il ritorno dell’accidentale [dell’uomo] alla Sostanza [l’Assoluto]». Il che «equivale alla reintegrazione della pluralità nell’Unità».

Dio, infatti, è Colui che tutto contiene – ogni manifestazione, ogni possibilità – sicché ogni cosa è, all’opposto, Lui e Lui solo. Da questo punto di vista è possibile affermare che Allah è l’unica cosa che realmente esiste.

Da questi diversi punti di vista il Tawhid islamico assume una connotazione, da un lato più esoterica, dall’altro onnicomprensiva. Noi (e ogni cosa) siamo soltanto in quanto Dio è. E siccome Allah è Uno, anche il manifesto (cioè una Sua volontà) deve necessariamente esserlo. L’unità, dunque, nel molteplice. Esattamente come insegna anche il misticismo orientale.

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